“Siamo negli anni Venti. Trieste era passata all’Italia, e pertanto si decise di aprire all’esercito il Bagno ‘Alla Diga’. Divenne disponibile a partire dall’11 giugno 1921: un motoscafo, dal rinominato Molo Audace, permetteva con una cifra simbolica di raggiungere la diga. Passò così dall’essere una spiaggia di nicchia a uno stabilimento di migliaia di bagnanti: i clienti si affollavano a nuotare nel tratto di mare tra la diga e il Porto Vecchio, a sua volta percorso dalle navi in entrata o in uscita dai bacini. Le barche si ritrovavano a compiere spericolate manovre per evitare incidenti e nei mesi estivi il porto ebbe più di un problema al traffico navale”.
Con questo passo tratto dal libro dello storico Zeno Saracino (“Trieste Asburgica”) Pino Pelloni, coadiuvato da Augusta Ciotti, ha intrattenuto gli amici della Fondazione al Caffè San Marco per raccontare la Trieste di Joyce, Svevo e Saba. Ne è venuta fuori una conversazione partita dalla Trieste dell’Ottocento dove l’industria si mescolava all’arte e il commercio alla cultura. Dalle prime costruzioni portuali e delle prime infrastrutture del Porto Vecchio alla primavera Liberty, dall’estate degli scavi archeologici di Barcola, e della sua industria balneare, alla malinconia autunnale delle ultime ville e teatri triestini di Città Vecchia. Per non dire della presenza di scrittori ed intellettuali del calibro di Joyce, Svevo e Saba.
Joyce visse a Trieste per ben oltre un decennio, che si rivelò fondamentale per la letteratura europea: qui, infatti, lo scrittore irlandese terminò ‘Gente di Dublino’, scrisse ‘Ritratto dell’artista da giovane’ e concepì e iniziò il suo romanzo più famoso, l’Ulisse.
Ad essere precisi l’esperienza triestina di Joyce durò poco più di 11 anni, dal 1904 al 1915 con qualche interruzione, e successivamente nel biennio 1919-20. All’epoca la città faceva ancora parte dell’Impero austro-ungarico, ma era popolata da svariate comunità che la rendevano un crocevia di culture e religioni, grazie anche alla sua posizione di frontiera. Durante il soggiorno triestino Joyce cambiò abitazione molte volte (nove sono le case in cui abitò) e in alcune visse per brevissimo tempo. Lavorava come insegnante di inglese, dapprima alla Berlitz School, poi alla Scuola superiore di commercio “Revoltella”. Non mancava di impartire lezioni private per arrotondare un pò il modesto salario. La sua mancanza di capacità nel gestire le finanze familiari tuttavia lo portava ad essere quasi sempre pieno di debiti che talvolta saldava grazie ai generosi contributi di allievi facoltosi. Nel 1915 Joyce dovrà lasciare Trieste a causa dello scoppio della Prima guerra mondiale, rifugiandosi a Zurigo. Vi tornerà nel 1919, ma si tratterrà soltanto due anni, per poi ripartire e non farvi più ritorno.
Joyce esercitò un’influenza potente su un altro grande autore, il triestino Italo Svevo, cui lo legarono amicizia vera e affinità intellettuale. Svevo conobbe Joyce nel 1907, quando divenne suo allievo d’inglese. Joyce si recava tre volte alla settimana a Servola a villa Veneziani, dove teneva lezioni a Svevo e alla moglie Livia. Lo scrittore triestino definisce l’amico: il “mercante di gerundi”, un appellativo che usava per definire le traversie economiche e di vita che lo scrittore irlandese aveva vissuto a Trieste con la sua famiglia.
Il loro rapporto non si limitò a quello di insegnante e allievo, andò oltre, fu un confronto fruttuoso tra due intellettuali che avevano in comune un tenace amore per la scrittura e un notevole senso dell’ironia. Una sera Joyce lesse ad alta voce a Livia e a Svevo il suo racconto di chiusura dei Dubliners (Gente di Dublino), The Dead (I morti), tanto che i due coniugi ne rimasero profondamente commossi. Fu allora che Svevo, fattosi coraggio, consegnò a Joyce, affinché li leggesse, i suoi due primi romanzi, Una vita e Senilità, e rimase piacevolmente meravigliato quando Joyce lo definì un grande scrittore negletto.
Trieste è, soprattutto, la città di Umberto Saba che la celebrò nelle sue poesie, strada per strada: da via Rossetti, a via del Monte e via del Lazzaretto Vecchio. E poi la città vecchia dove in via San Nicolò, 30, ancora c’è la libreria antiquaria da lui gestita e frequentata da Svevo. Umberto Saba ammirava Italo Svevo e lo testimonia il tributo che fa allo scrittore firmando e datando la copia de ‘La Coscienza di Zeno’ del 1923 con la nota di possesso in copertina “mio! Trieste 31/VII/1923 Saba”.
Il loro era un rapporto ambivalente, un’alternanza di stima e critica, ammirazione e non sopportazione. Così Saba canta la sua città: “La mia città che in ogni parte è viva, ha il cantuccio a me fatto, alla mia vita pensosa e schiva” (Dal Canzoniere, Trieste).
Che città meravigliosa, crocevia di tante culture, tanti personaggi e tante narrazioni: dalla “Coscienza di Zeno” alle “Elegie duinesi” di Rilke, da Carlo Rubbia a Margherita Hack, da Gillo Dorfles a Claudio Magris… per non dir di Freud che andò a Trieste a studiare il sesso delle anguille.