Alla Casa della Memoria e della Storia di Roma rievocati i drammatici giorni della battaglia di Cassino. Bombe, stupri e sfollati
Una vera e propria lezione di storia, in occasione della presentazione del diario di Lelio Aureli “Deportazione a Cassino”, promossa dalla Fondazione Levi Pelloni con l’ausilio degli interventi di Luca Aniasi (Presidente della Fiap), Paolo Aureli, curatore del volume, Pino Pelloni e gli studiosi Francesco Arcese e Antimo Della Valle.
Una lezione di storia, seguita da un numeroso ed interessato pubblico, propedeutica al convegno che la Fondazione promuoverà il prossimo 15 febbraio 2024 e dedicato agli 80 anni dalla distruzione dell’Abbazia benedettina di Montecassino (15 febbraio 1944).
In apertura le parole di Luca Aniasi, dedicate alle pagine del diario di Lelio Aureli, sono servite da introduzione alla ricca conversazione che ne è seguita. Conversazione-dibattito armonizzato dalla conduzione di Pino Pelloni che nel suo intervento ha posto l’attenzione sul valore della narrazione diaristica nell’ambito della storiografia accademica e non solo.
Paolo Aureli ha raccontato la vicenda di suo padre Lelio e le peripezie vissute da prigioniero dei tedeschi nel lungo e periglioso viaggio da Labico, paesino alle porte di Roma, alle macerie della Cassino distrutta. Un viaggio a ritroso verso Sud tra morte e disperazione.
A Francesco Arcese è toccata la parte più gravosa del pomeriggio romano nel raccontare le quattro battaglie di Cassino, la distruzione dell’Abbazia, lo sfondamento della Linea Gustav e l’arrivo degli Alleati a Roma. Racconto abilmente illustrato da rari reperti fotografici conservati nel suo archivio alcuni dei quali sono andati ad impreziosire il libro “Deportazione a Cassino”.
La sorte delle popolazioni civili, gli stupri delle truppe magrebine, le vicende degli sfollati sono stai illustrati con dovizia di interessanti particolari del nostro Antimo Della Valle.
Di seguito riportiamo l’intervento di Pino Pelloni che è anche la presentazione del diario di Lelio Aureli:
Negli ultimi anni, nell’ambito della storiografia sulla Seconda guerra mondiale, è emersa una sempre più crescente attenzione per il “vivere nella guerra” del così detto “fronte interno”, cioè per la quotidianità delle popolazioni civili comunque profondamente coinvolte dalla prima, vera “guerra totale”. E’ da questo nuovo interesse per le fonti private che dai cassetti e cassettoni degli italiani è venuta fuori una ricca documentazione fatta di diari, epistolari e memorie in cui la guerra rappresenta o tutto il tempo della narrazione o comunque uno snodo essenziale di più lunghi percorsi biografici, facendo della “memoria” scritta, accanto a quella orale, un significativo momento per la riflessione su quegli anni non tanto lontani.
Ma se ci soffermiamo a sbirciare tra diari e memorie che raccontano quei terribili mesi, come questa testimonianza in presa diretta del diario di Lelio Aureli, e sulla quotidiana “esperienza di guerra” della nostra gente, notiamo che tre sono le parole, come peraltro da altri notato, che caratterizzano quei giorni: fame, paura e attesa. Tre parole che, a prima vista, sembrerebbero unificare ogni cosa sotto una comune coltre di angoscia. Ma che, grazie soprattutto agli sguardi delle persone “comuni”, ai loro racconti minuti, alla familiarità con luoghi spesso accuratamente descritti, il quadro memoriale diventa utile alla ricostruzione “storica” di luoghi ed eventi.
A prendere forma, così, con sempre maggiore chiarezza, è una geografia sociale e spaziale di quel territorio che va da Cassino a Roma, in base alla quale queste “tre parole”, pure largamente condivise, si articolano con tempi e immagini tra loro diverse.
È a far data dal V secolo A.C., quando grosso modo viene sancita la nascita dei bios, che il diario personale è stato confinato per un lungo periodo all’uso privato e trattato come un documento estremamente personale, privo di qualsiasi valenza storica, letteraria e sociale. Bisogna aspettare molto tempo e precisamente il XIX secolo perché confessioni, memorie e autobiografie costituiscano un genere letterario vero e proprio e, solo molto più tardi, la storiografia rivaluterà cautamente la veridicità dei contenuti di questi documenti personali, elevandoli a fonte di informazione e testimonianza di determinati periodi storici.
È con la abbondante narrazione diaristica scaturita dagli eventi della Grande Guerra e dalle testimonianze dei migranti italiani che l’attenzione degli studiosi si posa su questa nuova fonte documentale. Ci si rende conto che più di ogni studio comparato, più di ogni indagine statistica, le scritture autobiografiche di oggi, ma anche quelle di ieri o di un secolo fa, hanno la capacità di raccontare e spiegare il proprio tempo a chi lo vive ma fatica a interpretarlo.
Così tra gli anni Ottanta e Novanta alla storia politica e militare della guerra si aggregò prima quella dei combattenti e a seguire quella della popolazione civile coinvolta. Due furono gli approcci possibili: quello che conferiva alle storie individuali un valore rappresentativo universale e quello che proponeva la molteplicità delle esperienze; unica fonte: la scrittura delle testimonianze di provenienza popolare.
I diari sono serviti e servono a comprendere l’esperienza individuale e collettiva degli esseri umani. Hanno anche favorito i processi di alfabetizzazione e di attivazione della pratica scrittoria. Senza dimenticare che è attraverso le narrazioni che cerchiamo di abbracciare il senso più generale della nostra esistenza e “di tenere insieme i pezzi del nostro sé, altrimenti soggetto a disperdersi nel suo svolgersi nel tempo e nei mille rivoli e nelle maschere sociali dietro cui ci ripariamo”.
A detta di molti studiosi si tratta di una vera “svolta narrativa”, una prospettiva sociologica affermatasi recentemente, che riconosce alle narrazioni un ruolo centrale nella storia dell’uomo e della società. Senza trascurare, poi, che gli universi simbolici di riferimento e i sistemi culturali sono intessuti di storie, racconti e narrazioni perché è attraverso il pensiero narrativo che l’uomo dà significato agli eventi e alla realtà.
Tenere un diario costituisce una pratica intima molto diffusa proprio perché “lo scrivere di sé risponde al bisogno di sopravvivenza, al di là della memoria”. Rispetto al vivere inteso come un flusso ininterrotto di eventi inafferrabili nella loro singolarità, infatti, affidare se stessi alla scrittura, significa sottrarla alla sua fugacità, al suo scomparire in virtù del carattere indelebile della parola scritta. L’autore non si limita, però, a riportare fatti e accadimenti: il diarista cattura e descrive circostanze particolari, idiosincratiche di un tempo e di una cultura, rilette dal suo sguardo personale. Questo intimo bisogno di dare forma all’informe, di selezionare un momento ritagliandolo dal vivere quotidiano, accompagna da sempre l’esistenza dell’uomo e la ricchezza del materiale prodotto in secoli di storia è stato utilizzato da varie discipline attirando anche l’interesse degli studiosi del sociale e in parte degli storici.
Il diario costituisce l’opera aperta per eccellenza perché manca ogni forma di progettualità, un disegno certo rintracciabile a lettura compiuta e ciò è sottolineato dall’espressione stessa con cui si indica la pratica dello scrivere, “tenere un diario”, che sottolinea il suo dispiegarsi nel tempo.
Le paginette vergate a mano da Lelio Aureli e contenute segrete in una cartellina azzurra, riposta in un cassetto e lontana da occhi indiscreti, ci hanno condotto lungo il desolato viaggio da Labico a Cassino. Un viaggio all’indietro, verso Sud. Verso paesi già distrutti, il dramma degli sfollati, la violenza tedesca, gli stupri selvaggi e i bombardamenti degli Alleati.
Un racconto gelosamente conservato nella sua memoria: ora per ora, giorno per giorno, paese per paese, nome per nome dal 19 novembre 1943 al 24 febbraio 1944. Una scrittura sofferta, veloce, ripetitiva ma che nell’insieme detta il ritmo, quasi documentaristico, degli eventi vissuti.