Il sacrificio dello storico francese e il ruolo della Brigata Ebraica nella liberazione del nostro Paese dal giogo nazifascista
L’intervento di Pino Pelloni pronunciato in occasione della cerimonia che i Repubblicani romani hanno dedicato al 78° anniversario della Liberazione dell’Italia dal giogo nazi-fascista.
“Bandiere alle finestre, l’Italia celebra il 25 aprile, la festa della Liberazione. Sono passati 78 anni da quel 25 aprile 1945 quando le formazioni partigiane, supportate dagli Alleati, entrarono vittoriose nelle principali città italiane, mettendo fine al tragico periodo di lutti e rovine, dando così il via al processo di liberazione dell’Italia dall’oppressione fascista.
Qualche anno dopo, dalle idee di democrazia e libertà, è nata la Costituzione Italiana.
La liberazione del nostro paese, come disse allora il generale Eisenhower fatta “per ristorare l’Italia come nazione libera”, ebbe inizio il 10 giugno del 1943 con lo sbarco degli Alleati in Sicilia e con la risalita vittoriosa lungo la penisola.
Il 17 agosto la Sicilia è finalmente liberata dalle forze anglo-americane. Il 3 settembre l’Ottava armata inglese agli ordini di Montgomery sbarcava in Calabria e solo sei giorni dopo i soldati americani del comandante Clark prendevano terra a Salerno. Il 1° ottobre viene liberata Napoli, ma l’avanzata si blocca a Cassino per la strenua resistenza dei tedeschi a difesa della linea Gustav. Solo a giugno Roma accoglie festante i liberatori.
Bisogna aspettare la primavera del ’45, con il crollo della linea Gotica, per vedere liberata la Toscana mentre il 21 aprile le truppe del generale Alexander entrano a Bologna. Ormai gli alleati, aiutati dalle formazioni partigiane che già hanno liberato molte città aiutate anche dalla popolazione insorta, dilagano nel nord Italia: liberata Milano, Genova e Venezia. Mussolini viene catturato dai partigiani a Dongo e viene fucilato. La guerra è finita.
Il 25 aprile si festeggia tutto questo. La liberazione dall’oppressione nazifascista e la ritrovata libertà. Una ricorrenza da non dimenticare mai e da far conoscere alle nuove generazioni. Facendo nostra la tesi di Giorgio Amendola della “Resistenza tricolore” ripresa nel libro “Intervista sull’antifascismo”, scritto da Piero Melograni proprio insieme ad Amendola. Laddove l’alto dirigente comunista intendeva dire che la Resistenza non era stata soltanto “rossa” e che quindi non ci si doveva aspettare una rivoluzione da parte dei partigiani. Infatti presero parte al movimento resistenziale forze cattoliche, comuniste, monarchiche, liberali, repubblicane, socialiste, azioniste ed anarchiche. Si trattò di un vasto movimento popolare per acquistare, come ha sempre sostenuto Giorgio Bocca, “il biglietto di ritorno alla democrazia”.
Poi non va mai dimenticato come la Resistenza italiana fu caratterizzata dalla presenza delle donne nei quadri delle formazioni partigiane, dal ruolo della stampa clandestina, dagli scioperi delle fabbriche e dalle stragi compiute dai nazifascisti.
Come non va dimenticata la partecipazione della cosiddetta Brigata Ebraica.
La Brigata ebraica stato uno dei militari che ha contribuito alla liberazione dell’Italia. Ebbe un ruolo fondamentale anche per assistere gli italiani di religione ebraica negli ultimi giorni di guerra e nei primi mesi dopo la liberazione. Promosse attivamente anche l’emigrazione verso la Palestina, nonostante le restrizioni britanniche. I militari della Jewish Brigade la chiamavano Chativah Yehudith Lochemeth (Forza di combattimento ebraica); furono incorporati nell’esercito britannico nel settembre 1944, reclutati tra ebrei Yishuv dalla Palestina mandataria e comandati da ufficiali anglo-ebrei.
La Brigata combatté con le proprie insegne a fianco di unità italiane e polacche (3ª divisione di fanteria del II Corpo polacco). Prese parte ai combattimenti di Alfonsine (19 e 20 marzo 1945), poi venne trasferita più a sud di fronte a Cuffiano (sulle prime pendici dell’Appennino). Il 27 marzo combatté al fianco del Gruppo di Combattimento Friuli contro la IV Divisione Paracadutisti del Reich. Il 9 e 10 aprile 1945 partecipò alla Battaglia dei tre fiumi assieme alle forze alleate, con le quali fu protagonista dello sfondamento della Linea Gotica.
Complessivamente, la Brigata combatté nel nostro paese dal 3 marzo al 25 aprile 1945, con una perdita di 38 morti e 70 feriti. Nel cimitero di Piangipane di Ravenna sono stati seppelliti i corpi dei loro caduti (complessivamente gli ebrei morti tra le fila dell’esercito britannico furono 700).
Finiti i combattimenti, dopo il 25 aprile, i soldati della Brigata Ebraica, furono protagonisti di un importante azione svolta a favore degli sfollati italiani, allestendo centri di rifugio per civili, fornendo generi di prima necessità e aiutando la popolazione civile in difficoltà. Successivamente la Brigata fu dislocata (dopo una breve parentesi a Tarvisio) in Belgio e in Olanda, dove si dedicarono al recupero della dignità della vita attraverso il soccorso fisico, educativo e morale dei sopravvissuti ai lager.
Il premio FiuggiStoria 2022 per la sezione saggistica, è stato da noi assegnato, in una cerimonia presso il Senato della Repubblica, per la sezione saggistica, al libro “Storia della Brigata Ebraica” di Gianluca Fantoni edito dalla Einaudi.
Pochi sanno che ad istituire il 25 Aprile come festa nazionale fu Re Umberto II Savoia. Infatti su proposta del presidente del Consiglio Alcide De Gasperi, il Re Umberto II, allora principe e luogotenente del Regno d’Italia, il 22 aprile 1946 emanò il decreto legislativo luogotenenziale n. 185 “Disposizioni in materia di ricorrenze festive” che all’articolo 1 recita: “A celebrazione della totale liberazione del territorio italiano, il 25 aprile 1946 è dichiarato festa nazionale.”
In ricordo di Marc Bloch
Questo 25 aprile 2023 noi della Fondazione Levi Pelloni lo vogliamo dedicare alla ricordo dello storico francese Marc Bloch.
Un combattente per la libertà. Un ribelle.
E per questo, soprattutto per questo, quella di Marc Bloch è la storia di uno storico che merita di essere raccontata. Dopo essere stato torturato venne ucciso a colpi di mitra a causa di quello che aveva deciso di essere: un partigiano.
Era il 16 giugno 1944. Nei pressi di Lione, sua città natale, uno dei più grandi intellettuali francesi del XX secolo, Marc Bloch, insieme ad altri 26 militanti della Resistenza, venne fucilato da un plotone di esecuzione della Gestapo.
Con i suoi 58 anni era il più anziano del gruppo, ma anche il più tranquillo. A un ragazzo sedicenne che, terrorizzato, mormorava: «Mi farà male…» cercò di dare conforto: «Ma no, figliolo, non farà male…». Le sue ultime parole furono «Viva la Francia!». Non tutti, fra i compagni della Resistenza, sapevano chi fosse. Lo conoscevano con i nomi di copertura: «Narbonne», «Chevreuse», «Arpajon».
Quell’uomo maturo e compassato, dall’aspetto sobrio e distinto, i capelli grigi, gli occhiali con le lenti tonde e una montatura scura non era un militante politico nel senso stretto del termine. Era, soprattutto, un patriota, che amava la Francia.
Aveva combattuto durante la prima guerra mondiale e non aveva esitato, malgrado l’età e una famiglia numerosa che gli avrebbero consentito di rimanerne fuori, a prendere parte al nuovo conflitto iniziato nel 1939 come capitano addetto ai rifornimenti e poi, dopo il 1942, come membro attivo della Resistenza.
Nella sua intensa e dolente testimonianza uscita postuma nel 1946, La strana disfatta, scritta nel 1940, ora ristampata anche in italiano (Res Gestae, pagg. 214, euro 16), Bloch tentò, da francese innamorato della Francia, un «esame di coscienza» per cercare una spiegazione a una sconfitta, prima ancora che militare, morale e culturale, frutto della «letargia intellettuale delle classi dirigenti» e dei «loro rancori», della «gerontocrazia», del «disagio dell’esercito e del paese» e della debolezza etica della borghesia.
Bloch era ebreo, «se non di religione, almeno di nascita», ma non rivendicava la sua origine salvo quando, precisava, si trovava «di fronte a un antisemita». Si sentiva, prima di tutto, francese: la Francia, scriveva, «resterà per me, qualunque cosa succeda, la patria da cui non saprei sradicare il mio cuore. Vi sono nato, mi sono dissetato alle sorgenti della sua cultura, ho fatto mio il suo passato, non respiro bene che sotto il suo cielo, e mi sono sforzato, a mia volta, di difenderla quanto meglio ho potuto».
La sua passione per lo studio e l’insegnamento della storia presupponeva il suo interesse per la vita, in tutte le sue manifestazioni. Era convinto che «l’incomprensione del presente» derivasse «fatalmente dall’ignoranza del passato» e che compito dello studioso fosse fare «la cernita del vero e del falso». Al centro della sua indagine c’era sempre l’uomo
La volontà di Marc Bloch era quella di pensare al dopo, quando sarebbe stato necessario ripensare una nuova realtà democratica e dove il primo obiettivo, per quanto riguardava la sua missione di storico civile, non sarebbe stato solo ripensare un nuovo ordine scolastico capace di aiutare la formazione civica di un cittadino consapevole, ma anche “non mollare”, esserci, far parte in prima persona della necessaria ricostruzione di un Paese che la sconfitta del 1940 aveva obbligato a ritrovare se stesso e fondare una nuova idea di cittadinanza.”