ARTURO RIETTI: la Bellezza dipinta

Tre bellezze diverse a confronto, rappresentate da una donna dell’aristrocrazia: la CONTESSA; da una donna del popolo, la CONTADINA slovena; da una donna del basso ceto: la MENDICANTE

“E la Bellezza salverà il mondo”.

Ma cos’è la Bellezza per Arturo Rietti? Per questo artista, nato nel 1863 a Trieste e morto a Padova nel 1943, che si sentiva cittadino del mondo e, che come riportato da Cesare Sofianopulo in “Originalità di Arturo Rietti. Ritratto di un ritrattista vegetariano che mangiava bistecche”: “… Girovagava di continuo da una capitale all’altra, come se questa Europa gli fosse troppo angusta, ma per Trieste provava sempre nostalgia “la più bella città del mondo”. Ad un giornalista che voleva farne un profilo disse: “Io sono tutto ciò che vi può essere di più triestino”. Eppure egli non voleva mai dirsi pittore triestino, perché credeva di appartenere al Mondo, forse perciò egli peregrinava per tutto il tempo della sua vita.”

Ed in un taccuino del 1924 così si esprimeva: “.. a Trieste anche le brutte sono belle” ed ancora in un taccuino del 1925 sottolineava: “….la “mula triestina” miracolo della natura.”

Egli è il frutto dell’uomo che visse, impegnadosi, momenti storici importanti.

Il suo essere ebreo di religione, greco di nazionalità, italiano di cultura, lo porterà a vivere pienamente le varie epoche in cui scorre la sua vita.

Per dare una risposta al suo concetto di Bellezza abbiamo sfogliato i suoi tanti appunti travasati nei taccuini che non dimenticava mai di portare con sé e che erano sempre pronti in tasca ad accogliere uno schizzo od un’annotazione, infatti sono pieni dei suoi pensieri sull’arte, sulla società, sui momenti che stava vivendo, ma anche di indirizzi e di elenchi dei ritratti da lui dipinti, oltre che di ciò che doveva comprare per il vivere quotidiano, ridandoci, in questo modo, l’uomo Rietti a tutto tondo.

In un taccuino del 1910 annotava: “Amando si scopre la Bellezza. Cercando la Bellezza s’impara ad amare” (l’Arte) .

E così scriveva in un quaderno datato 1919: ”L’Arte è il tempio dedicato alla Bellezza. E Bellezza significa Forza, Intelligenza, Bontà. Chi non entra in questo tempio, chi non adora questa vera Dea, chi non rispetta coloro che dalla natura sono destinati ad amministrarne il culto, è un nemico di ogni cosa buona.”

Ed ancora a Venezia nel settembre del 35 annota: “La bellezza è una sola. L’Arte è una sola. Vi è un solo grande artista, un solo artista Perché vi è una sola Verità, una sola armonia. Ma vi sono innumerevoli e diversissimi imbecilli”.

A suo avviso “La Bellezza nasce dal contatto del pensiero umano con la Divinità, ossia col mistero, ossia con la verità”.

“Perché tirar fuori anche il Buono, e il Vero, quando si discorre del Bello? A chi capisce qualche cosa la parola Bello basta (il Bello comprende in sé il Vero e il Buono) e per chi non capisce, ogni parola è inutile… La Bellezza, parola che esprime l’ammirazione dell’uomo per l’Armonia, cioé per il segno evidente della Divinità La Bellezza importa e niente altro. Che cosa dovrebbe dire Dio, chi avrebbe mai pensato a Dio, se non apparisse una così perfetta armonia nelle forme della Natura?”

Ed in un quaderno datato 1930 – 1940 annota: “Le vene delle foglie, la venatura dei tronchi d’albero, dei marmi, i bocci, i fiori aperti, tutte le forme della natura sono per noi Bellezza. Ma tutte queste forme derivano logicamente dalla necessità della vita. La vita è la fonte della Bellezza.

Deformazione! L’interpretazione delle forme della natura.

Il disegno, il tono, la macchia di luce e di ombra, gli accordi di colore che derivano dalla conoscenza profonda e dalla sensibilità dell’artista non hanno niente a che fare con la vostra “deformazione”.

Egli infatti già nel 1920 sosteneva che: “Tutto ciò che esiste può essere materia di Bellezza nell’arte. Ma ciascun artista sceglie la materia che fa nascere la Bellezza nel proprio spirito. Non sempre ciò che contiene gli elementi dell’opera d’arte per l’uno li contiene per l’altro.”

E pertanto per lui, in un’annotazione riportata in un Taccuino del 1921:La vita di un artista (vero) è una elaborazione continua incessante di una idea di Bellezza. Ma nell’anima nutrita di odio questa idea non si può sviluppare.”

Ed allora va alla ricerca del compito dell’artista ed in un taccuino del 1935 si chiederà: ”Quale è il compito dell’artista? Esprimere un concetto di Bellezza, insegnare la Bellezza. Soltanto un’opera che esprima in modo sincero, forte, nuovo ( cioé profondamente individuale ) un concetto mera sensazione di Bellezza ha valore e poiché purtroppo esiste un commercio d’arte, si può pagare un alto prezzo. Dover pensare al denaro, esser dunque costretto a produrre opere da vendere è un errore è un danno per l’artista, per l’arte per il mondo.“

Ed ancora nel 1939 appunterà il seguente pensiero: “Il vero artista è naturalmente buono, poiché il suo animo è pieno di gratitudine a Dio per l’ammirazione che gli ispira il creato, e per la bellezza che egli scopre anche negli esseri considerati come brutti dal volgo. Ma l’orrore che desta in lui la disarmonia, l’insofferenza di ciò che per la rozzezza o la malignità degli uomini impedisce il suo lavoro può farlo apparire cattivo a chi non lo capisce”.

“Io vivo per mostrare il mistero che vive in me. Nel silenzio sento la voce di questo mistero. Perciò ho bisogno di solitudine. Lo scopo della mia vita è la rivelazione di questo mistero. Ma per poter vivere materialmente, devo trascurarlo, devo anzi insultarlo e tradirlo, devo profanarlo. Per bisogni volgari uomini volgari trovano aiuto! Ma di me e del mio mistero che importa alla gente.”

Lui sostiene che “l’opera d’arte è bella in quanto mostra emozione e sapere” e noi qui oggi vogliamo mettere a confronto tre bellezze diverse, rappresentate da una donna dell’aristrocrazia: la CONTESSA; da una donna del popolo: la CONTADINA slovena; da una donna del basso ceto: la MENDICANTE.

In un taccuino della primavera del 1914 scriveva: ”Tanto più mi par bello un viso, quanto più l’anima ne traspare (vi appare )”.

E ciò che accumuna queste tre donne è proprio la ricerca della loro intima bellezza.

In un taccuino del 1920 annotava: “La bellezza della donna è la realizzazione dei sogni di grandi artisti. Ma è raro che la donna abbia coscienza dell’origine e del valore della propria bellezza e perciò la guasta con parole sciocche con risate folli, con gesti sbagliati, e la getta ai farabutti e ai falsi artisti che sono il fiore dei farabutti”.

Il primo quadro rappresenta una CONTESSA, una delle tante donne dell’aristrocrazia da lui dipinte per adornare le pareti delle loro ville o castelli, fossero essi in Italia od in giro per l’Europa.

A tal proposito in un quaderno del 1919 troviamo questo appunto: “La donna dell’aristocrazia mi piace anche nella sua ignoranza, come Parigi mi piace nella sua miseria”.

Questo ritratto è del 1910 e la critica Beatrice Vialet nel novembre del 1917 in “Pagine d’Arte” a tal riguardo, così si esprimeva: “Tipica prova ritrattistica dell’artista triestino che dopo aver sviluppato nei primi anni del ‘900 la tecnica a pastello del rapido abbozzo, privilegia una variante più definita e meno compendiaria al servizio della borghesia e della nobiltà milanese. Si notino in particolar modo, il tipico blu cobalto gessoso ed elettrico, quasi una firma dell’artista e la scaltrezza della perla e dell’occhio che rilucono.La luce nella pupilla è collocata maestrevolmente per rendere non un occhio, ma uno sguardo”.

Quello sguardo che ci permette di penetrare nell’anima dell’effeggiata e che riassume perfettamente l’idea di ritratto di Arturo Rietti: “Se il ritratto non rivela una verità segreta, profonda dell’anima del soggetto non è poesia…”

Il secondo quadro rappresenta una CONTADINA slovena. Rietti amava dipingere le figure del popolo fin dai suoi inizi in Toscana, a Colle Val d’Elsa, dove ritraeva gli operai delle ferriere ed i contadini. Continuò a farlo anche quando ritornò a Trieste: “la mia simpatia per i contadini sloveni (suggerita dal sentimento per la Bellezza) irrita i triestini i liberali di 10 anni fa”. Così annotava in un taccuino del 1920 in cui esprimeva tutta la sua indignazione per l’atto razzista che a Trieste aveva incendiato la Slovenski Narodni Dom, la casa della cultura degli sloveni.

Il quadro rappresenta il tipico “ritratto alla Rietti” caratterizzato da ampie zone circostanti non dipinte che danno un senso di non finito. I segni di pastello blu cobalto inseriti dal pittore fra la fine dell’ Ottocento e il primo ventennio del Novecento sono quasi una firma cromatica dell’artista che in questo quadro servono a schiarirne le tinte oscure che circondano il volto.

E l’ultimo dipinto che analizzeremo è quello intitolato “LA MENDICANTE” a cui Rietti è particolarmente affezionato tanto da annotare in un taccuino del 1943: ”per di più lasciai lì in casa altrui le mie pitture: il ritratto di Pascarella che avevo fatto allo stesso in casa del conte Muratti, la vecchia mendicante triestina di cui ho la stampa e che credo sia la miglior pittura di questo secolo…”

Ma già in un taccuino del 1930 aveva scritto: “Non è bello un quadro perché vuol rappresentare una cosa bella (una donna bella, un cielo al tramonto ecc.) ma non è neppure bello perché rappresenta una cosa brutta. Una persona bruttissima, un paesaggio orrido possono offrire un tema per l’arte bellissima”

Con questo pastello del 1897 partecipò a numerose esposizioni e nel 1924 ottenne la medaglia d’oro all’ ”Esposizione per il ritratto femminile” al Palazzo Reale di Monza. Anche questo quadro è molto legato al periodo toscano per la sua connotazione veristica

Nell’anno stesso in cui fu dipinto venne esposto dallo Schollian a Trieste e su “Il Piccolo” del 30 dicembre venne così recensito: “una testa di vecchia orrida, spelata, bitorzoluta, che mette ribrezzo, ma dipinta con mirabile maestria, con un fare così energico, così vibrante, tanto fresca nel colore, che ha tutta la vigoria, la luce del vero”.

Il critico austriaco Franz Servaes annotava sulla “Neue Freie Presse, nel 1902, all’epoca di una sua mostra a Vienna : “ Egli dipinge quanto può essere dipinto e l’una cosa non è mai inferiore all’altra. Dipinge bambini così fiorenti, che ci vien desiderio di carezzarne la morbida pelle: ci presenta vecchi signori, così imponenti e sereni che proviamo davanti ad essi un sentimento di rispetto, belle donne piene d’intensa femminilità, e, accanto a tutti questi, una testa di vecchia di una tale fenomenale bruttezza che richiama alla mente le più ardite caricature di Leonardo da Vinci. Ma appunto questa orribile vecchia dice meglio di ogni altro quadro la immensa potenza del Rietti: è una grande vittoria della forma sulla materia; è una vera e rara opera d’arte.”

Ed ancora il 5 aprile del 1903 al momento dell’esposizione di tale opera alla galleria Miethke di Vienna il critico ungherese Ludwig Hevesi scriverà sul Fremdenblatt: “Egli ha dipinto quel profilo che è il più orrendo che la fantasia di un pittore ha potuto immaginare. Sconcertati ci si domanda è questo il coronamento della creazione?”

Orribile donna, in vero, ma piena di dignità, cosicchè quando il pittore, dopo essersi perso nel sentiero di vita delle rughe del suo volto, le si avvicinò per aggiustare le pieghe del suo scialletto lei lo apostrofò, con aria seria, dicendogli, “ …ma cosa sta facendo con questa mano…io non sono mica una di quelle…”

E concludiamo il nostro intervento con questa sua affermazione: ”Credo solo alla Bellezza perché è la sola cosa che non ha bisogno di dimostrazione”, con il corollario di quanto da lui riportato in un taccuino del 1931-32 dove si chiede:  “(Che cosa è bellissimo ?) Si esiste il bello come esiste la poesia, come esiste la verità ma ciascuno lo sente secondo la propria capacità”.

…”E la Bellezza salverà il mondo”.

Anna Caterina Alimenti Rietti