Sulle tracce del Portogallo ebraico

Il reportage in occasione della chiusura del Progetto Europeo Edif a cui la Fondazione Levi Pelloni ha partecipato insieme ad associazioni di altri Paesi europei.

Pino Pelloni e Margherita Ascarelli sono stati in Portogallo, Lisbona e Sintra, in occasione della chiusura del Progetto Europeo Edif, a cui ha partecipato la Fondazione Levi Pelloni insieme ad associazioni di altri Paesi europei. E si sono messi alla ricerca di tracce antiche di quel poco che rimane dell’ebraismo portoghese.

Il Portogallo così come la Spagna sono stati Paesi storicamente pieni di tradizione ebraica e di storia, di persecuzioni e di marranesimo e dal 1492, anno della famosa “Cacciata degli ebrei spagnoli”, dalla quale discendono la maggioranza dei cosiddetti “Sefarditi” poi emigrati in Nordafrica e in Medio Oriente, dal Marocco, alla Turchia, non c’è più stata una presenza ebraica rilevante.

Oggi nella cattolicissima terra lusitana della antica e molto importante cultura sefardita non c’è più traccia. Nulla o assai poco. Infatti, proprio nel Paese dove anche le tintorie si chiamano ‘Nossa senhora da piedade’, è facile pensare che la cacciata degli ebrei da Spagna e Portogallo, tra 1492 e 1496, sia stata radicale e definitiva.


LISBONA

A Lisbona c’è una sola sinagoga, costruita a inizio Novecento da ebrei nord africani: un salto di quattro secoli rispetto all’editto che imponeva la fuga o la conversione. Una visita merita il quartiere di Alfama, la parte più antica della città e sede dei resti dell’ultimo quartiere ebraico di Lisbona .

La sinagoga Shaaré Tikvá è in via Alexandre Herculano e il Centro ebraico viene frequentato in prevalenza dalla parte laica della comunità. La sinagoga è molto bella, costruita dall’architetto Afonso Álvares, lo stesso che ha progettato l’edificio del Parlamento. Sono circa trecento gli ebrei della comunità di Lisbona.

A Lisbona, in largo de São Domingos nei pressi di piazza del Rossio, centro storico e nevralgico della città, è deposta una lapide a forma di Maghen David. Ricorda le quattromila vittime di una delle più cruente e misconosciute carneficine mai commesse contro gli ebrei in Europa. Accadde più di cinquecento anni fa, nel cuore della capitale portoghese. Correva l’anno di grazia 1506 quando, nella chiesa di São Domingos, si accese un violento diverbio contro uno dei cristãos novos, i “nuovi cristiani” o ebrei convertiti a forza alla religione cattolica da re Manoel. Fu la scintilla, o il pretesto, che in città dette il via a tre giorni di violenze efferate, commesse da una folla aizzata dai domenicani al grido di “Dagli al marrano”. Non si trattò di un atto pilotato dall’Inquisizione, che in Portogallo fu introdotta solo nel 1536 e che imperversò soprattutto lungo i secoli XVI e il XVII, ma quei giorni di aprile del 1506 segnarono una delle più sanguinose tappe del percorso storico degli ebrei sefarditi.

A differenza che in Spagna, dove nel 1492 i regnanti Isabella di Castiglia e Ferdinando d’Aragona espulsero gli ebrei con il noto editto di Granada, in Portogallo re Manoel coltivò dapprima il progetto di convertirli forzatamente al cattolicesimo e di farli restare nel Paese. Solo nel 1496 fu spinto a decretarne a sua volta l’espulsione. Si formarono così numerose famiglie di “marrani” e di cristãos novos, spesso in seguito ai battesimi forzati che furono imposti in particolare nel 1497. L’Inquisizione aprì i suoi tristi uffici quarant’anni dopo, opprimendo e perseguitando chiunque fosse accusato di praticare l’ebraismo o di “giudaizzare” in segreto. Per quel decreto di espulsione, per le uccisioni e per le persecuzioni inflitte, anche il Portogallo, come ha fatto la Spagna, ha approvato nel 2015 una normativa, nota come “Legge di riparazione”, che offre ai discendenti di quegli ebrei perseguitati la possibilità di ottenere la cittadinanza portoghese e di ritornare a risiedere sul suolo lusitano.


PORTO

Porto, la città che ha dato il nome al Portogallo, anticamente Cale, era un piccolo villaggio celtico situato alla foce del Douro, dove i Romani costruirono un porto, il “Portus Cale”, origine del nome “Portogallo”. Gli iscritti alla comunità ebraica di Porto sono oggi 150.

La sinagoga Kadoorie Mekor Haim, in via De Guerra Junqueiro, è la più grande della penisola iberica. Fu fondata nel 1923 dal capitano Barros Basto insieme a venti commercianti ebrei arrivati dalla Lituania, dalla Polonia, dalla Germania e dalla Russia; qui, oggi, è possibile trovare un regolare minyan ogni Shabbat e partecipare al Kiddush.

Questa imponente sinagoga art decó rimane, come quella medievale della minuscola Tomar, una testimonianza architettonica in un presente quasi privo di ebrei.

È l’edificio ebraico di culto più grande della penisola iberica, tenacemente voluto dal Capitano Artur Barros Basto, il “Dreyfus portoghese”, un militare di una famiglia di conversos che, dopo esser tornato all’ebraismo, avviò un capillare progetto di educazione (con pubblicazioni, yeshivà, conferenze), nell’intento di riportare all’ebraismo migliaia di “marrani” portoghesi.

La Chiesa e la dittatura di Salazar riuscirono a sbarazzarsi di Barros Basto, portandolo di fronte a un tribunale con l’accusa (risultata infondata), di molestie sessuali nei confronti di alcuni studenti della yeshivà da lui creata. Il capitano fu radiato dall’esercito e solo quest’anno il Parlamento portoghese lo ha ufficialmente riabilitato, ma il suo progetto, che pure infiammò molti ebrei dell’epoca, soprattutto nelle comunità ispano-portoghesi di Amsterdam, Londra e New York, non poté che fallire. Così, ecco che dopo più di quattro secoli di persecuzioni antiebraiche, il processo a Barros Bastos, l’umiliazione, le calunnie, furono per molti conversos il segno che l’Inquisizione aveva solo cambiato forma.


I “RESISTENTI” EBREI DI BELMONTE

Girando per cittadine e villaggi si possono rintracciare molte testimonianze ed un ricco patrimonio che evocano la presenza ebraica in Portogallo. Anche se ci sono tracce di una presenza ebraica anteriore, è stato fra il Vº e il XVº secolo che la comunità ebraica sefardita, o degli ebrei della Penisola iberica, si è insediata nel territorio che costituisce oggi il Portogallo, contribuendo in vari modi alla formazione della cultura portoghese.

Protetti dai sovrani, molti dei membri della comunità, fra i quali si contavano filosofi, umanisti, scienziati e mercanti, ma anche artigiani come calzolai, sarti o tessitori, presero parte attivamente a vari momenti decisivi della storia portoghese. Da ricordare il periodo delle origini della nazione, il contributo per il popolamento del territorio, e, più tardi, il contributo finanziario e scientifico durante l’epoca delle Scoperte. E non va dimenticato il grande matematico e cosmografo del XVIº secolo, Pedro Nunes, inventore del Nónio, uno strumento per la navigazione.

Nel 1496, l’Editto di Espulsione degli ebrei dal Portogallo li obbligò a convertirsi al cattolicesimo diventando ‘cristão-novos’, ossia neocristiani o giudei convertiti. Molti lasciarono il paese, ma molti altri rimasero e mantennero la loro fede in segreto, erano i cosiddetti marrani o cripto-giudei. I segni e le iscrizioni simboliche di quei tempi si possono vedere ancora oggi scolpiti sulle case degli antichi quartieri ebraici, in alcune località come Faro, Tomar, Trancoso, Belmonte, Castelo de Vide.

Rua Nova, Rua Direita, Rua da Estrela o Espinosa sono esempi di nomi di vie che indicano l’esistenza di un quartiere ebraico. Osservando le case, si vedrà a pianoterra una grande porta che introduce al negozio e un’altra più stretta, per l’abitazione, posta nel piano superiore. Una dimostrazione dell’impulso notevole che gli ebrei diedero all’attività commerciale. In alcune case si osserva ancora la fessura per la “Mezuzah” (pergamena con vesetti del Pentateuco, che veniva posta sul lato destro dello stipite della porta).

Belmonte è un piccolo paese di settemila anime sulle montagne del nord-est, vicino al confine con la Spagna.

Per cinque secoli, circa trenta generazioni, un tempo biblico, gli ebrei di Belmonte hanno vissuto con una doppia identità. Cristiani all’esterno, con battesimi, matrimoni in chiesa e tombe con la croce. Ma, contro tutto e tutti, ebrei di nascosto, in casa. Di madre in figlia, generazione dopo generazione, si sono tramandati l’imperativo di sposarsi tra loro, di accendere le candele di Shabbath, cuocere le matzot per Pesach, digiunare per Kippur, intrecciare il lulav per Succoth. L’imperativo di resistere.

Senza conoscere l’ebraico, avendo persa la coscienza di far parte di un popolo che veniva da lontano e che andava oltre le mura di Belmonte, hanno resistito, a rischio della vita. Fino a pochi anni fa c’erano piccole comunità ebraiche sparse sui monti del nord-est.

Nel museo ebraico del paese una intera parete riporta i nomi di tutti quelli che l’Inquisizione è riuscita a scoprire e perseguitare. Bastava un camino da cui di sabato non uscisse il fumo, o un vicino che ti vedesse sgozzare una gallina con il coltello, e potevi finire sotto processo come “giudaizzante”. Il rogo era la pena estrema, ma anche l’abito penitenziale da portare a vita era un castigo terribile. Tuttavia, in quei luoghi un po’ remoti rispetto a Lisbona e Porto, arroccati sulle montagne e vicini al confine, fu più facile mimetizzarsi, anche perché di immobili e terre da confiscare gli ebrei non ne avevano, e le ricchezze “liquide”si potevano nascondere.

Negli anni ’20 Samuel Schwarz, un ebreo polacco che dirigeva le miniere locali, scoprì per caso l’esistenza di quegli ebrei nascosti. Schwarz racconta, nelle sue memorie, delle infinite diffidenze degli ebrei di Belmonte a rivelarglisi come tali, delle donne che gli chiedevano di recitare come prova una preghiera e non credevano alla sua pretesa di conoscerne solo in ebraico, una lingua a loro ignota. E di come finalmente vinse le loro resistenze recitando lo Shemà. Alle prime parole, come per un istinto ancestrale, le donne si coprirono gli occhi, e la più anziana decretò: “è ebreo, ha detto Adonai”. Era l’unica parola ebraica che conoscevano.

Solo negli anni ’80 del secolo scorso, finita la dittatura che impediva la libertà religiosa, quelli che ancora erano considerati “nuovi cristiani” iniziarono timidamente a uscire allo scoperto. Mentre molti anziani preferirono rimanere legati al cripto-giudaismo, a quella religione vissuta esclusivamente in casa (compresa la sukkà costruita all’interno delle mura domestiche), officiata in lingua portoghese, i giovani iniziarono un difficile percorso che li ha portati a costruire una sinagoga, un mikvé e un cimitero, a imparare l’ebraico, a studiare e pregare con un rabbino israeliano che è anche shochèt.

Uno di primi libri stampati in Portogallo è stata un’edizione del Pentateuco, realizzata da Samuel Gacon, a Faro, nel 1487. Oggi esistono vari musei sulla presenza ebraica in Portogallo, a Castelo de Vide, Belmonte, Faro o Tomar, in quest’ultima località il museo è installato in un’antica sinagoga del XVº secolo.

Nella loro diaspora gli ebrei hanno anche divulgato la lingua e la cultura portoghese. Durante la IIª Guerra Mondiale, il Portogallo ha accolto molte migliaia di ebrei in fuga dalle persecuzioni naziste.