Il concerto dei Docenti e degli Allievi del Conservatorio di Santa Cecilia ha chiuso gli appuntamenti dedicati al Giorno della Memoria 2025
Lunedì 17 febbraio si è chiuso, con il concerto “Entartete Musik” in Campidoglio, il ciclo degli incontri programmati dall’Area didattica della Fondazione Giuseppe Levi Pelloni per il Giorno della Memoria 2025. Dopo gli incontri nelle scuole di Fiuggi, Castel Madama,Valmontone e un concerto presso la Casa di Goethe Museum di Roma è stata la Sala Protomoteca ad ospitare l’interessante concerto dedicato alla musica degenerata su progetto del maestro Barbara Ferrara, docente di Musica da Camera del Conservatorio di Santa Cecilia e di Marina Cesarale, pianista accompagnatore dello stesso Conservatorio. Ad eseguire le musiche di Robert Kahn, Ilse Weber e Gustav Malher gli allievi e i docenti dello stesso prestigioso Conservatorio romano: la violinista e docente del Conservatorio Santa Cecilia Liliana Bernardi, il primo violoncello del Teatro dell’Opera di Roma Luca Peverini, la giovane soprano Miriam Fusseder e gli allievi Michela Marchiana e Marco Osbat.

A chiusura dell’applauditissimo concerto Raul Wittenberg ha offerto la commossa testimonianza delle peregrinazione di suo padre Erhard Wittenberg in fuga dalla natia Germania, l’arrivo in Italia, il rastrellamento, il campo di concentramento, la liberazione con la fine della guerra. Al racconto del padre Erhard, musicista e compositore, messo al bando dal regime nazista e finito a fare il medico a Roma, sono seguite le parole della signora Luciana Bartolini la cui famiglia salvò i Wittenberg. Luciana Bartolini è la figlia del grande e celebrato incisore, poeta e pittore Luigi Bartolini. Tra commozione ed applausi è stato eseguito un brano del compositore messo al bando Erhard Wittenberg.

L’intervento di apertura di Pino Pelloni
Ci troviamo in questa bella Sala del Campidoglio a chiudere il ciclo degli incontri che abbiamo dedicato al Giorno della Memoria 2025.
Ci è toccato in sorte questo 17 febbraio, una data che ci porta alla mente altri avvenimenti. In questo stesso momento a Piazza Campo de’ Fiori i nostri sodali dell’Associazione Libero Pensiero stanno ricordando l’assassinio col fuoco dell’eretico Giordano Bruno. E a questo punto mi urge anche ricordare a tutti voi, prendendo a prestito il Levitico: “…Affinché sappiano le vostre generazioni”, come il 9 settembre 1553, primo giorno di Rosh ha-Shanà 5314 del calendario ebraico, vennero bruciate, per volere di Papa Giulio III, copie del Talmud in Campo di Fiori. In quella piazza dove alcuni anni dopo verrà arso vivo il marrano Josef Saralvo e dove dopo più di mezzo secolo subirà la stessa sorte il pensatore e filosofo Giordano Bruno. A ricordare il triste avvenimento una targa apposta qualche anno fa (2010) dal rabbino Di Segni e alla presenza del talmudista Rav Adin Steinshaltz che ricorda ai passanti come: “La pergamena brucia, ma le lettere volano via”.

E ancora oggi, 17 febbraio, a due passi da noi presso la Chiesa Valdese, si ricorda con la presentazione di un libro la data del 17 febbraio 1848 quando i valdesi ricevettero i diritti civili che segnarono l’inizio del lungo cammino verso la libertà religiosa in Italia.
Ma veniamo al nostro incontro. Il concetto di “arte degenerata” emerse nella Germania nazista, durante il periodo compreso tra l’ascesa al potere di Adolf Hitler nel 1933 e la fine del regime nazista nel 1945. Questo periodo storico fu caratterizzato da un tentativo sistematico di controllare e manipolare la cultura e l’arte per promuovere l’ideologia nazista e i suoi ideali di purezza razziale e estetica.
L’arte degenerata è un termine coniato dai nazisti negli anni ’30 per denigrare e censurare opere d’arte che non aderivano agli ideali estetici e politici del regime. Questo concetto abbracciava vari stili modernisti come l’espressionismo, il dadaismo, il surrealismo , e il cubismo, considerati moralmente corrotti, antitedeschi o semplicemente incomprensibili dalle autorità naziste. Gli artisti associati a questi movimenti furono perseguitati, le loro opere furono confiscate, distrutte o esibite in mostre con l’intento di ridicolizzarle e screditarle.
Molti subirono la distruzione delle loro opere, la perdita dei loro mezzi di sussistenza e, in alcuni casi, la reclusione o la morte. Questo periodo buio della storia dell’arte ha avuto un impatto devastante sul patrimonio culturale mondiale e sulla vita di numerosi artisti, segnando una delle pagine più tragiche dell’interazione tra politica e arte.
Tutto questo perché il regime promosse l’arte “ariana”, che doveva esprimere i valori di bellezza, forza e purezza razziale.
Stessa sorte toccò ai libri, al teatro e alla musica e ai musicisti tedeschi operanti in quegli anni nella Germania hitleriana senza dimenticare come questo processo di sradicamento dell’”influenza ebraica” sulla musica tedesca si sviluppò con valenza retroattiva e giunse a colpire maestri quali Felix Mendelssohn (1809-1847) (a Lipsia venne rimossa una sua statua) e Gustav Mahler (1860-1911), le cui opere vennero vietate in tutto il Reich.

La furia nazista contro la “musica degenerata” prese naturalmente di mira anche i contemporanei, costringendo all’esilio compositori di origine israelita del calibro Arnold Shonberg (1874-1951), il padre della dodecafonia, e Kurt Weil (1900-1950) autore di musiche destinate a lasciare un segno indelebile nel teatro del Novecento. Molti altri furono ridotti al silenzio, altri ancora internati nei primi campi di concentramento. Il marchio dell’infamia non era riservato solo alle “razze inferiori”, ma a tutti coloro che si fossero macchiati di complicità con la “degenerazione culturale ebraico-bolscevica”. Molti andarono in esilio (ad esempio, Arnold Schönberg, Kurt Weill, Paul Hindemith, Berthold Goldschmidt) o si ritirarono in ‘confino’ (ad esempio, Karl Amadeus Hartmann, Boris Blacher), o finirono nei campi di concentramento (ad esempio, Viktor Ullmann o Erwin Schulhoff). Alban Berg fu tra i compositori che furono censurati perché usava il sistema dodecafonico, inventato dall’ebreo Schönberg.
Tra le tante vittime della persecuzione nazionalsocialista vanno ricordati il maestro Igor Stravinskij e il compositore austriaco Erns Krenek, autore di un’opera di successo, Jonny Spielt auf, nella quale un jazzista di colore seduce una giovane ragazza bianca.
Questo forte grado di omologazione imposta dal modello totalitario non riuscì tuttavia a impedire l’emergere tra le giovani generazioni di accenti di difformità che, indirettamente, si evidenziarono come manifestazioni di opposizione all’ideologia ufficiale. Nelle principali città del Reich, Amburgo e Berlino in particolare, gruppi di giovani non facevano mistero della loro attrazione per la “musica degenerata”, organizzando feste semiclandestine in cui suonavano orchestrine di jazz, mentre i ragazzi si lanciavano in gare di ballo sulle note dello swing.
Tutto questo perché la musica non costituiva semplicemente una forma d’arte nel Terzo Reich. Nell’immaginario nazista, la musica aveva un significato e un potere unici. Come nazione, la Germania aveva una lunga tradizione musicale rappresentata dai grandi compositori classici, inclusi Mozart, Bach, Beethoven, Haydn, Schubert e Wagner. Questo dato di fatto spinse alcuni a sostenere che la musica fosse ‘la piú tedesca delle arti’. L’importanza universalmente riconosciuta ai compositori, direttori d’orchestra e musicisti tedeschi fu un enorme motivo di orgoglio; allo stesso tempo, i trends moderni e cosmopoliti delle arti nel periodo intrabellico erano sentite, in alcune zone, come una minaccia enorme. Per i Nazisti, la pretesa degenerazione della musica tedesca costituiva sia una metafora che un sintomo della degenerazione nazionale.
La dottrina nazionalsocialista condannò le attività musicali degli ebrei non solo perché esse sono direttamente ricollegabili alla finanza ebrea o al marxismo, ma perché sono la causa della rovina e della decadenza della musica stessa.
Questi artisti vennero accusati di produrre “caos atonale“, di dare vita a “equivalenti artistici del bolscevismo”, di compiere “istigazioni internazionali al collasso”, di essere portabandiera di “razze estranee” che attentavano alla forza morale del popolo tedesco. “Che non si mi venga a parlare di libertà dell’arte”, diceva il Fuhrer.
Nelle ultime parole di congedo, Mosè raccomanda al popolo: “Ricorda i tempi antichi, cercate di comprendere gli anni dei secoli trascorsi (il corso della storia), interroga tuo padre e ti racconterà, i tuoi anziani e te lo diranno….”.